Ieri sera, tram 30, direzione piazza XXIV Maggio. Mi stavo dirigendo verso i Navigli con mio fratello che non c’era ancora stato. Sul tram c’era un’anziana signora, sola, età credo intorno ai 75 anni, arzilla ma visibilmente spaesata. Doveva tornare a Famagosta ma si era persa finendo in tutta altra direzione. Un gentile autista del 27 l’aveva lasciata alla fermata per raggiungere Porta Genova, dove poteva poi prendere il 71, assicurandosi che tra i presenti ci fosse qualcuno che scendesse a Porta Genova. Non potevamo essere noi, saremmo scesi ben prima, ma… Il mio viaggio fino a piazza XXIV Maggio è stato assorbito da un doloroso “ma” che mi aleggiava in testa.
Guardavo la signora e mi sentivo in difetto, mi faceva male saper di non fare nulla, sapere che alla mia fermata sarei scesa con mio fratello, avrei fatto la mia passeggiata e poi sarei tornata casa. Ancora adesso, ripensandoci, mi da una sensazione di fastidio latente. È lo sforzo razionale fatto per bloccare l’istinto di esser di aiuto a quella anziana signora a creare dolore, sapevo che se fossi stata sola probabilmente avrei volontariamente allungato il percorso al fine di assicurarmi che prendesse il 71. E non si tratta di spirito “Madre Teresa di Calcutta”, è un comportamento auto-analgesico mentale. Guardandomi razionalmente da fuori mi rendo ben conto che è un tentativo mal celato di sopperire alla graduale perdita di mia nonna e, soprattutto, al mio essere lontana, assente. Scelte e azioni emotivamente guidate, per quanto si finga che non sia così. Ricerca di un qual si voglia effetto analgesico, che non basta mai. Una sorta di morfina della coscienza, capace di dare sollievo solo inizialmente, che dà una dipendenza non curabile.
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