17 gennaio 2010

Conoscere interpretando

Due sere fa, davanti l'ennesima tazza di qualcosa di caldo presa a casa di Tonia, discutevamo io e lei sul voler conoscere e lasciarsi conoscere. In realtà la stavo spronando a lasciarsi "conoscere" da Giancarlo, di rimettere in gioco. Lei mi ha risposto con una domanda pseudo-filosofica Tu ti lasceresti conoscere? A cui io ho risposto con un'altra domanda altrettanto pseudo-filosofica Tu mi vorresti conoscere? Ammetto che credevo di avere chiuso la partita "a mio favore", credevo di aver trovato la domanda con risposta secca che le imponeva di darmi una risposta univoca. Invece no, la risposta di Tonia mi ha letteralmente spiazzato. Snocciolando le sue parole, lei mi ha detto che vuole mi conoscere ma non tramite il racconto, deve vedere perché ciò che conosce lei lo deve innanzitutto interpretare e perché, comunque, quello che si racconta, è soprattutto una propria interpretazione.
Questo mi ha dato da pensare, in primis è un modo di conoscere a cui non avevo mai realmente pensato e poi non avevo mai realmente pensato di dare una mia interpretazione a quello che racconto. In realtà quando io racconto qualcosa di me vuol dire che quello di cui parlo la ho già abbondantemente digerito per cui è come se parlarsi di un'altra persona, con lo stesso distacco con cui parlerei di qualcuno con cui non ho niente a che fare. Questo mi serve a rimanere lontana da ciò di cui parlo, lontana soprattutto emozionalmente.
Quello che dice Tonia presuppone il non aver tempo di aver fatto tutto questo lavoro, presuppone scoprirsi più di quanto avevo realmente pensato.

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